Politica e Tecnologia

contributi per l'incontro del 14 febbraio

Appunti DED (Giovanni Durbiano)

Paura

L’IA è uno strumento, molto efficace ma sempre strumento. Mentre quello che gira nello strumento è un prodotto tutto umano.  L’IA non è responsabile dell’elezione di Trump, così come la radio non è responsabile di quella di Hitler. L’IA non è altro che la catalogazione e registrazione delle forme di vita umane.

Certamente la tecnologia pone dei potenziali pericoli. Che sono pericoli politici: quando il pericolo era il nucleare, a essere coinvolti nella decisione erano solo pochi capi di stato, mentre oggi i soggetti coinvolti sono tanti, visto che le tecnologie sono economicamente accessibili. Il pericolo non è la singolarità (cioè il cervello che, come HAL, ci fa schiavi perché vuole comandare) ma la moltitudine: la massa di persone frustrate e trattate malissimo sul web. Per voler comandare bisogna avere delle paure, delle aspirazioni: bisogna essere degli organismi.

 

Intelligenza, coscienza, corpo organismo

La macchina non hanno intenzioni. Siamo noi umani che vogliamo subordinare la macchina ai nostri intenti. Attribuiamo una coscienza alla macchina perché noi abbiamo una coscienza. Mentre la macchina intelligente non ha coscienza (come il PC che vince agli scacchi), gli uomini, invece, essendo imperfetti, hanno una coscienza. Anche il gatto, che ha un corpo che gli dà delle sensazioni, agisce con un comportamento cosciente. La coscienza dipende dal fatto che abbiamo un corpo. La nostra intelligenza artificiale, quella che abbiamo nel cervello (perché leggiamo e studiamo) è inserita in un organismo naturale che ha bisogni, desideri, urgenze. E poi muore, e lo sa. Gli organismi hanno processi irreversibili: muoiono, mentre le macchine hanno meccanismi reversibili (accesi/spenti).

 

Atteggiamento propositivo

Una politica per l’IA non dovrebbe limitarsi a regolare o alla difesa della privacy (in democrazia alle piattaforme la vita degli individui normali interessa solo per vendere e non per controllare). Occorre avere un atteggiamento affermativo e produttivo sulla tecnica: credere nell'umanità. Immaginarsi il mondo nuovo e porsi obiettivi all’altezza della sfida poste dalle nuove condizioni determinate dai nuovi strumenti. Al cambiare dei mezzi la politica deve modificare i fini.

Controlatecnocrazia (Dunia Astrologo)

Viviamo immersi in un mondo dominato dalle tecnologie digitali, che stanno alla base della produzione, dell’informazione, delle relazioni sociali e perfino della creatività artistica. In alcuni casi nuove scoperte scientifiche stanno risolvendo problemi importantissimi in campo sanitario, biologico, in quasi tutti i campi della ricerca scientifica. È il technium di cui parlava Kevin Kelly già una quindicina di anni fa[1].

 

E l’espansione di questo dominio è continua, apparentemente irrefrenabile, tanto potente e pervasiva da aver intaccato anche il sistema di valori di buona parte degli esseri pensanti, e tanto da essersi posta di fronte a loro quasi come una novella divinità, della cui esistenza e manifestazioni terrene non c’è da dubitare, né troppo scrutare. La tecnologia c’è. Punto. Possiamo indagare le sue manifestazioni “terrene”, le sue forme, i suoi miracoli, ma non possiamo dubitare che esista per la salvezza dell’umanità.

 

Invece l’indagine ha da essere di tutt’altra specie, se non vogliamo essere completamente sussunti dalla logica delle macchine, o degli algoritmi, come ora ci piace definire le forme del dio-tecnologia.

A cosa servono, chi le produce, per quale finalità, e come impattano sulla nostra vita, sia che siamo lavoratori, consumatori, produttori di beni o commercianti, cittadini sottoposti alle regole di uno stato, studenti o docenti? Ed è, l’espansione della tecnologia, tutta sinonimo di progresso, di libertà e di magnifiche sorti? o ci minaccia con le sue possibili applicazioni liberticide o più “semplicemente” alienanti?

Queste domande, che alcuni studiosi fortunatamente raccolgono e cercano di porsi, indagando i fenomeni connessi, dovrebbero interessare in modo particolare chi si occupa di politica e, tra questi, più ancora chi si interroga sulle condizioni attuali e future del lavoro in un sistema economico e produttivo dominato dagli algoritmi.

La recentissima virata tecnocratica e conservatrice (blanda definizione) degli USA ha rivelato, nel senso proprio di s-velato, messo a nudo, ciò che dall’inizio del secolo si stava concretizzando: il predominio di un post-capitalismo globale (i.e. senza confini e impronte nazionali) tecnocratico, sfuggente a ogni regola, e capace di attivare un grandioso processo di accumulazione di ricchezza su una base finanziaria e virtuale ( le cryptovalute sono solo uno dei modi più “pittoreschi”, espressionisti, di rappresentare la distanza tra l’economia reale e quella virtuale che questo neo-techno-capitalismo può mettere in moto) impossibile apparentemente da controllare.

 

Mentre una microscopica parte del mondo accumula ricchezze immense depauperando il pianeta  (energia, acqua e di conseguenza foreste, habitat umani…) , graziosamente sostenuta da un’altra parte che, pur non essendo  della partita, si arricchisce attraverso altre risorse fondamentali (dal petrolio alle terre rare) di cui ha il possesso o il governo, e favorisce la prima sottostando alle sue richieste e offrendo paradisi fiscali o politici,  la grande maggioranza dell’umanità subisce tutto ciò in modo quasi del tutto inconsapevole, arricchendo involontariamente i primi, con la cessione di pezzi della propria identità, e in più provandone gusto, e accettando condizioni di lavoro “in-decenti” ( in senso anglosassone = prive di dignità), con bassi salari, cattiva organizzazione e supersfruttamento, mancanza di sicurezza, di continuità, di avvenire, di crescita personale. Chi ancora può ritenersi al sicuro, chi ha un lavoro stabile, decoroso, pagato in modo sufficiente, condivide spesso con i più marginali la totale ignoranza relativamente al funzionamento interno di algoritmi e piattaforme che gestiscono i processi produttivi e gestionali. Molti ignorano di essere controllati da quegli stessi algoritmi che sono funzionali allo svolgimento del proprio lavoro.

Non è una visione apocalittica, ma realistica. Si basa sulla constatazione della velocità con cui nell’ultimo quinquennio (anche meno) si sono diffusi e resi popolari strumenti di Intelligenza Artificiale che in parte sono in grado di sostituire, in parte di affiancare, in parte potenziare le capacità umane in moltissimi campi lavorativi e non solo. E tutto ciò viene accompagnato da una narrazione che fa assumere a questi strumenti ancor più di prima i connotati della “deità” assieme a quelli del gioco, coprendo con il velo della leggerezza e del mistero una realtà che ha invece dei ben precisi contenuti, obiettivi, modalità tipici del capitalismo nella sua nuova forma: produrre profitto, accumulare al massimo, sfruttando il meccanismo dell’estrazione di plusvalore da quel che resta del lavoro vivo utile, da quel che sempre più occorre in termini di materie prime da un lato e di conoscenza dall’altro.

È un meccanismo inarrestabile, immodificabile, talmente “giusto” da dover essere solo accettato e riproposto?

Io credo che ci debbano essere limiti e obiettivi socialmente e politicamente condivisi, che contrastino le ambizioni e i sogni di dominio delle élites tecnologiche affinché ci si riappropri del valore del lavoro uscendo dall’alienazione che il grande technium produce, e dei valori di sostenibilità e condivisione della ricchezza che la scienza e la nostra intelligenza collettiva può creare.

 

Proposte “pratiche”, ma per nulla semplici:

-          Analisi delle condizioni organizzative del lavoro nei settori dove piattaforme, realtà virtuale, robot e simili sono più presenti. Ovvero: studiare l’organizzazione dell’algoritmo

-          Prendere contatto con chi lavora in regime di subordinazione all’algoritmo (non solo i “rider”, anche gli impiegati di banca, gli sviluppatori di sw, i geometri e gli operai..) e provare a innescare un confronto per far emergere dubbi, consapevolezza, idee per comprendere meglio le reali condizioni di lavoro di queste persone: far emergere le contraddizioni in seno all’algoritmo

-          Sostenere con forza l’idea ormai vetusta ma non più ripresa seriamente né da sindacati né da partiti, di ridurre in modo generalizzato gli orari di lavoro a parità di salario laddove ovviamente vi sia una organizzazione del lavoro minimamente strutturata e una capacità di controllo dal proprio esborso di tempo da parte del lavoratore (e dove non c’è, bisognerebbe crearla gestirla e difenderla, come nel caso del cosiddetto smart working):   mettere in crisi la subordinazione all’algoritmo

-          Ipotizzare modi per socializzare sia la conoscenza relativa ai sistemi di IA sia le idee di usi più socialmente utili, meno passivi, più consapevoli dei diversi strumenti che ci accompagnano sia nel lavoro che nella vita quotidiana: un altro algoritmo è possibile



[1] Kevin Kelly “Quello che vuole la tecnologia” Codice ed. 2011

IA e lavoro intellettuale (Franco Marra)

IA e lavoro intellettuale

Questioni a proposito di medici, softwaristi e tutti gli altri

Franco Marra, feb. 2025

 

E’ recente l’annuncio da parte di openAI di un automa (Operator[1]) in grado di svolgere in autonomia dei compiti  tradizionalmente fatti dagli umani al computer. Altri annunci simili sono stati o sono per essere fatti dalla bandwagon della IA. Con un simile automa, l’acquisto di un viaggio (un esempio tra tanti possibili), che abitualmente viene fatto al computer attraverso diverse sessioni interattive (tipo ricerca e prenotazione del volo dell’albergo, della macchina in affitto etc. fino ad arrivare ai pagamenti), potrebbe avvenire automaticamente con una elevata probabilità di successo. Questo è il nuovo fronte commerciale, gli automi, la killing app verso cui si muove la IA sperando di sanare conti economici ad oggi piuttosto disastrati .

Già oggi il lavoro dei softwaristi è eroso da sistemi che sono in grado di produrre soluzioni anche sofisticate sulla base di pezzi di codice depositati in specifiche librerie come quelle gestite da GitHub[2]. In questo caso sono questi progettisti che si fanno male da soli, data l’inveterata e ideologica abitudine dei migliori di loro di scrivere codice aperto, modulare e fin dall’inizio pensato per essere mutuato con altri. Basteranno i nuovi principi della tecno-democrazia di Trump a far cambiare loro idea? In entrambi i casi comunque il modello di produzione è simile: esempi, dati del passato come base di conoscenza (pezzi di codice, transazioni commerciali) e "sintesi" del risultato con tecniche generative.

 

Se il Fascicolo Sanitario, o meglio se l’insieme degli FSE di una certa popolazione, fosse una libreria di casi medici gestiti come GitHub, non sarebbe difficile immaginare un dott. Automa in grado di fare diagnosi e prescrizioni per una particolare popolazione di umani  (magari sulla base di un modello fondativo addestrato sulla totalità dei casi medici in Internet)[3]. Popolazione che a sua volta potrebbe essere suddivisa per tipo di malattia, età etc, per aumentare a piacere la specificità del metodo. E così si arriverebbe agli specialisti: il prof. Automa esimio internista. Con residenza e studio sul nostro smartphone. In grado di diagnosticare (attraverso un’indagine a passi come se si fosse nello studio fisico di un dottore umano) e prescrivere cure. Fatta salva ovviamente le necessità di visite reali eseguite fisicamente con sfigmomanometri e stetoscopi. Di cui però in numerosi casi, non ci sarebbe bisogno (ma già oggi molte “visite” sono fatte via telefono), data la diffusione sempre più grande di dispositivi wearable in grado di rispondere alla bisogna. Commercialmente disponibili a modico prezzo in farmacia in un comodo kit con la rispettiva app medica che simula lo specialista. Si aprirebbero prospettive commerciali incredibili per Big-Pharma: farmaci vendibili senza prescrizione ma con medico incorporato incarnato in una app da scaricare.. Al posto del bugiardino. Chiedi al nostro dottore di fiducia se ne hai bisogno e come usarla! Chissà quanti nuovi pazienti salterebbero fuori!

 

Allora mi chiedo:

      Prima questione: tutti i lavori umani, o quali di essi, possono essere modellati in termini di libreria di esperienze e sintesi generativa della soluzione al caso? Questa è la questione più importante, perché potrebbe essere rifrasata come “fino a che punto il lavoro intellettuale (nel nostro caso uno specialista medico) è minacciato dalla IA?” .

      Seconda questione: siamo in possesso di metodologie che ci consentano di misurare la qualità complessiva delle produzioni generate (senza le quali metodologie corriamo il rischio di una bolla marketing e finanziaria costruita sulla pelle della gente, come, a mio parere e in base alla mia esperienza diretta, capita in parte oggi con gli LLM[4])? Da notare in merito l’assordante silenzio in letteratura su questo tema. Insomma come misuriamo la qualità del sopra minacciato sistema automatico di diagnosi e terapia? Verrebbe forse naturale giocarsi la cosa in termini di falsi positivi e negativi, così popolari nella letteratura sui test medici di laboratorio e sui vaccini, basati sui concetti di specificità (che può aumentare segmentando la popolazione: maggiore specificità, più falsi negativi) e sensibilità (forse qui associabile alla numerosità dei dati di addestramento: maggiore sensibilità, più falsi positivi). Comparando quanto statisticamente prevedibile da questi indicatori con un benchmark rappresentato dalle statistiche sugli esiti professionali di medici umani, si dovrebbe avere un’idea della qualità del sistema.

      Sottoquestione: già, ma come capiamo che un risultato è un falso (positivo o negativo)? Mi risulta che non ci sia nessuno strumento automatico per farlo. Sembra necessario l’intervento umano (supervisore). Ma questo quanti casi analizza? Tutti? Evidentemente no, non ci sarebbe bisogno del sistema. Allora a  campione. Ma quali sono i criteri di scelta dei campioni?

      Terza questione:  come ci giochiamo il concetto di responsabilità, che a questo punto sembra un po’ svanire come le lacrime nella pioggia[5]? Abbiamo un sistema che, statisticamente risponde meglio del corrispondente umano, ma che di natura non sa distinguere il vero dal falso. La assegnamo al supervisore umano, un dottore vero che analizza solo dei campioni, con gran sollievo per i conti del SSN? Per tutti gli altri casi, la statistica non ha colpe..

 

Infine consentitemi di spiegare meglio quello che intendo con un’immagine che illustra il caso di un matrimonio combinato da un automa paraninfo:  https://drive.google.com/file/d/1MjhLcBgmzc9RniXJlEGlPQekt8-c5ssM/view?usp=drive_link 



[1] https://www.technologyreview.com/2025/01/23/1110484/openai-launches-operator-an-agent-that-can-use-a-computer-for-you/

 

[2] https://github.com/features/copilot

 

[3] https://www.open.online/2025/02/03/matteo-bassetti-diagnosi-chatgpt-bambino-intelligenza-artificiale/

 

[4] https://docs.google.com/document/d/10scxzkahjr1UXUyTP9zdCwwHw49dO0-n/edit?usp=sharing&ouid=101389133674819154823&rtpof=true&sd=true

 

[5] https://it.wikipedia.org/wiki/Ho_visto_cose_che_voi_umani

 

Cuochi o camerieri? L'impatto della IA sui due mestieri (Franco Marra)

Cuochi o camerieri? L’impatto della IA sui due mestieri

Franco Marra, feb 2025

 

Tra le prime crepe dell’amministrazione Trump emerge quella del progetto Stargate. Un finanziamento da 500 Mld $ per la creazione di nuovi data center destinati all’Intelligenza Artificiale (nel seguito IA), che qualcuno insinua essere funzionale a una politica trumpiana di divide et impera  per il controllo dei galli del pollaio. Musk su X dice che non ci sono soldi, Altman dice che Musk dovrebbe badare al bene degli USA invece di fare polemica. Ma al di là, appunto, delle polemiche resta la realtà di una volontà USA  di grande accelerazione (in un'ottica di contrasto con la Cina ma soprattutto di una post-democrazia basata su sorveglianza e controllo dei big data) per quella che, con termine ormai quasi romantico, una volta si chiamava in Italia Ricerca e sviluppo. La capacità di definire sviluppi tecnologici e prodotti nuovi in un’ottica al di là del ritorno immediato del capitale investito e in un quadro di rischio potenziale. Rischio tanto minore quanto più elevata è la cultura, tecnica e di mercato di chi investe.

 

Dagli anni 90 del secolo scorso in Italia siamo diventati sempre più fornitori di servizi invece che di prodotti, siamo diventati intermediari. Eravamo cuochi, siamo diventati camerieri di un cibo cucinato nelle cucine di altri. Pleonastico domandarsi dove stia il vero valore.

E purtroppo per noi gli spazi di intermediazione, dove operano i camerieri, sono invasi dagli algoritmi.

 

Il lavoro è caratterizzato da forme precarie, il cui estremo è rappresentato dalla piattaforma Mechanical Turk di Amazon di arruolamento di lavoratori per l’assegnazione di microtask. Questa non è mai stata oggetto di nessuna importante attenzione da parte del sindacato e della politica, e già il chiedersi le cause di tanto silenzio potrebbe essere molto istruttivo. MT è stata alla base dello sviluppo della IA attraverso l’arruolamento di un numero sterminato quanto mai determinato di persone del terzo mondo impiegate nel training delle macchine, attraverso l’uso di codifiche occidentali finalizzate alla catalogazione del mondo in un panorama di oggettivo azzeramento delle culture locali.

In forme diverse ma sempre precarie, davanti ai nostri occhi si vede quotidianamente l’effetto del dominio dell’algoritmo nel mondo del lavoro: i rider che portano le pizze, gli autisti del delivery del commercio elettronico, i servizi innovativi di taxi etc. Algoritmi che, si badi bene, sono anche alla base del fiorire di un piccolo artigianato casalingo basato sul facile approvvigionamento delle materie prime e dal commercio elettronico. Il successo però è garantito solo se in possesso di specifiche competenze sul posizionamento del proprio sito nella babele di Internet. Di nuovo una ricetta.

 

E questo ci porta al mercato dove la diminuzione dell’intermediazione umana è resa plasticamente visibile dallo sparire, oltre che dei piccoli negozi, degli sportelli. Bancari, ma anche di servizi pubblici essenziali quali quelli postali. Facile immaginare a questo punto quale potrà essere l’effetto della IA in servizi a maggiore valore aggiunto quale quello della Sanità, in crisi già oggi per motivi politici e demografici.

Il veicolo più importante per l’invasione del mercato da parte dell’algoritmo è senz’altro lo smartphone, dispositivo ormai diffuso nel 50% della popolazione mondiale. In questo, si incarna la forma il cui l'algoritmo si presenta alle masse: l’app. Il principale mezzo oggi di vendita di beni e servizi.

 

E infine veniamo alla politica in cui la fine dell’intermediazione rappresentata dal comizio e dalla stampa ormai è totale. Le reti sociali qui la fanno da padrone. Di nuovo, come nel caso del commercio elettronico degli artigiani, la competenza tecnica per acquisire coscienti obiettivi di visibilità nel mare magno di Internet sarebbe qui fondamentale. Accanto ad efficaci meccanismi di formazione e controllo delle community. Specie per quanto riguarda il terzo settore, che si limita sostanzialmente all’uso di strumenti casalinghi.

 

Per tornare in cucina  bisognerebbe rimparare a fare i cuochi. Oltre ai soldi per la cucina, un sistema educativo che trasmetta le ricette giuste. Per i soldi, bisognerebbe affiancare, in un’unica cucina, altri cuochi europei (ad es. CERN per la IA). Per le ricette, Il ministro Valditara ripropone la Bibbia per cucinare le nostre radici  e il latino come lievito del pensiero logico.  Basta leggere quanto dice Aresu[1] sull’immigrazione come fattore di sviluppo, per rimandare Valditara nelle paludi novaresi da cui proviene, mentre sull’importanza di insegnare il latino per far logica non si capisce perché non insegnare direttamente la logica stessa. Anche grazie anche al clamoroso successo ottenuto da questa disciplina proprio in quel mondo classico di cui Valditara si professa paladino. Dove, per fortuna degli antichi, non c’era ancora la disastrosa gentiliana distinzione tra vero sapere e utilitaristica tecnica che affligge la scuola italiana dal tempo del fascio.

Noi abbiamo bisogno di ricette che parlino della macchina di Turing e del teorema di incompletezza di Goedel, che chiariscono il perché dell’immensa potenza dell’algoritmo ma anche i motivi di limiti impliciti e non superabili che inficiano la narrazione di “deità” a cui si accennava prima. Che almeno accennino, le ricette, alle scienze statistiche che sono alla base della IA: il teorema di Bayes è altrettanto importante dei principi deterministici della fisica classica, ma tutti ignorano cosa sia (se escludiamo l’armatore dello sfortunato Bayesian affondato davanti a Palermo nell’estate del 2024).

 

Your old roads are rapidly aging, cantava Bob Dylan in The times they are a-changin del 1964. E aggiungeva You better start swimmin’ or you’ll sink like a stone. Bene, è tempo per le organizzazioni sindacali, per le associazioni di consumatori, per il terzo settore e per la politica in generale di imparare a nuotare. Devono capire e adottare la cultura digitale. Devono imparare a sviluppare[2] e a dare giudizi sulle app[3]. Devono sapere come acquisire visibilità e consenso usando Internet e mettendo a fattor comune le risorse mediatiche di cui già dispongono in forma parcellizzata. Farlo significa una forma globale della sinistra che preveda centri di competenza digitale, in forma consortile o cooperativa (con senso di recupero vero delle proprie radici), con competenze di cultura digitale,  in grado di aiutare tutti a navigare nel burrascoso mondo digitale. Se no siamo destinati ad annegare sprofondando come pietre. Il digitale può e deve essere il nostro salvagente, non solo l’imbuto che riempie il portafoglio del padrone.

 

Se non cominciamo almeno ad intraprendere questa via, non possiamo - credo - che concludere con un clamoroso e italico io speriamo che me la cavo.

 

 

[1]A. Aresu, Geopolitica dell’Intelligenza Artificiale, Feltrinelli 2024

[2] Un esempio: https://bit.ly/3E6Mzel

[3] F. Marra, Proposta per un Laboratorio per il Contrasto alle Forme di Progettazione Ingannevole nelle Applicazioni, sett. 2024 https://bit.ly/4jpACRf

Note per una discussione su politica e tecnologia (Pietro Bizzotto)

Note per una discussione su politica e tecnologia

Il disordine del mondo e la destra vincente

Aumento delle diseguaglianze, marginalizzazione delle componenti sociali più deboli e contemporanea concentrazione del potere economico (e non solo) nelle mani di pochi enormi soggetti privati a livello mondiale sono i principali fenomeni oggi al centro della discussione sullo stato del mondo.

Nei cosiddetti paesi sviluppati gran parte dei ceti sociali più deboli (economicamente, socialmente, culturalmente) hanno reagito ai processi di marginalizzazione allontanandosi dal voto o premiando elettoralmente la destra più becera (leggi Trump). Destra che è riuscita a saldare la paura del futuro ed insoddisfazione per la mancanza di speranza e di prospettive (di crescita sociale e di uscita dalla marginalità) dei ceti deboli con l’interesse dei grandi ricchi a liberarsi delle “inutili resistenze” (sic!) poste dagli Stati al pieno dispiegarsi dei processi di arricchimento.

La difficoltà di una nuova proposta politica

Perdenti sono stati i richiami alla ragionevolezza dell’azione politica, in nome della imprescindibilità di regole e vincoli provenienti dall’empireo della “economia globale”, considerata un mondo a parte dalla politica, con l’inevitabile accettazione dei conseguenti obblighi a proprio carico: accettazione piena della più ampia libertà del capitale finanziario, riduzione del prelievo fiscale, limiti all'indebitamento dello Stato. Perdente è stata anche la radicale ma velleitaria critica al cosiddetto neoliberalismo e alla sua prima presunta conseguenza: la globalizzazione (oggi uccisa da Trump, primo campione della destra).

Se è facile, a posteriori, puntare il dito contro i limiti della proposta politica “progressista”, sia nelle varianti più moderate che in quelle più radicali, non è altrettanto facile elaborare una proposta effettivamente capace di aggregare un consenso ampio.

A mio avviso una possibile proposta in questo senso dovrebbe: essere capace di assicurare ampi spazi di libera realizzazione ad ogni persona e coniugata con il riconoscimento della intrinseca socialità dell’essere uomini; sviluppare l'autonomia e la capacità di scelte consapevoli delle persone, con il rafforzamento dell’impegno e della responsabilità sociale; cercare di superare la logica della massimizzazione della ricchezza personale quale unico metro di successo personale, premiando l’impegno per l’aumento del benessere collettivo.

Sono prospettive non facili da declinare in proposte politiche concrete e pragmatiche ma ineludibili per chi non ritiene accettabile l’attuale stato delle cose.

 Il primato del digitale e le sue criticità

Personalmente ritengo che la forza dello sviluppo tecnologico, giustamente indicata come una delle principali se non la principale causa delle criticità in atto, contenga in sé anche la possibilità di una torsione nella direzione della valorizzazione personale, della inclusione, del bene collettivo.

Negli ultimi 50 anni, lo sviluppo tecnologico, in particolare delle tecnologie digitali è sicuramente stato tra i più importanti fattori alla origine dei grandi ed accelerati cambiamenti in atto.  Non a caso nell’ultimo decennio, le prime cinque aziende per capitalizzazione a livello mondiale appartengono al settore digitale; con un livello di capitalizzazione che supera il pil di quasi tutti gli Stati nel mondo[1].

Alla base dell’enorme potere economico acquisito dai grandi player digitali sta il grandissimo successo dei prodotti e dei servizi digitali[2], divenuti in pochi anni componenti indispensabili e non sostituibili della nostra vita quotidiana, ma sta anche il controllo esclusivo delle fondamentali risorse informative, primi fra tutti i dati sui nostri comportamenti in rete[3].

A tutt’oggi le attese di ulteriori sviluppi delle tecnologie digitali (vedi IA) e dei loro dirompenti effetti sull’intero sistema economico globale spingono un ulteriore crescita dei protagonisti di settore ed ha reso il digitale il principale terreno di confronto geopolitico nel mondo, in particolare tra USA e Cina.

Contestualmente non sono mancate le analisi critiche e le denunce dei rischi e degli effetti perversi legati allo sviluppo del digitale: eccessiva concentrazione di potere, perdita di sovranità degli Stati, perdita e/o dequalificazione di lavoro, sfruttamento del lavoro e rapina di risorse (terre rare) dei paesi più poveri, eccessivo consumo energetico, danni ambientali, impoverimento culturale e marginalizzazione funzionale, ecc.

Regolare non è più sufficiente

Con difficoltà i governi hanno fatto propria la consapevolezza dei rischi e sono intervenuti con regolamentazioni ad hoc. Innanzitutto, la UE ma anche la Cina e almeno fino all’amministrazione Biden, con molta ritrosia, anche gli Stati Uniti.

Anche grazie al fatto che le denunce dei rischi e dei pericoli del digitale non hanno scalfito, se non in misura insignificante, il consenso e l’accettazione convinta dei servizi digitali da parte della stragrande maggioranza delle persone (in particolare dei più giovani), la regolamentazione non ha intaccato la posizione dominante dei principali attori del digitale, né modificato significativamente le loro scelte.

Con l’elezione di Trump gli Stati Uniti hanno definitivamente azzerato la già debole propensione alle regole, invocate d’ora in poi, in nome della difesa nazionale, solo quando utili a escludere la concorrenza estera (in particolare quella cinese).

È molto probabile che una eventuale resistenza della UE alle presumibili pressioni dei giganti oltreoceano per un allentamento di fatto della regolamentazione europea possa scatenare vere e proprie rappresaglie da parte del governo USA.

Questo il contesto attuale rispetto al quale ci si pone la domanda su che fare.

A livello europeo una politica centrata prevalentemente sulla regolamentazione risulta oggi, alla luce delle scelte del nuovo governo americano, del tutto insufficiente a fare giocare un ruolo all’Europa e difficilmente sostenibile nei confronti dei player americani, sostenuti ora dal governo Trump.

D’altra parte una azione per sostenere e fare crescere uno o più campioni europei nel digitale in grado di competere con i player oggi dominanti (tutti statunitensi) non sembra fattibile per più ragioni: dimensione del capitale necessario, assenza e/o ridotta propensione al rischio dei grandi capitali privati in Europa, scelte dei consumatori consolidate;  ed in ogni caso non rimuoverebbe nessuna dei punti critici connessi alla esistenza stessa dei “quasi” monopoli (un quasi monopolista europeo non si comporterebbe diversamente da un quasi monopolista americano o cinese).

Le alternative sono dichiararsi perdenti o ricercare una strada diversa capace di generare speranza e consenso, soprattutto nelle nuove generazioni.

Cavalcare la conoscenza aperta

Non ci sono dubbi che la prima preoccupazione di fronte al cambiamento tecnologico sia il futuro del lavoro; non solo il timore del suo venire meno ma soprattutto il suo impoverimento, laddove la insufficienza di domanda spinga per l’accettazione di lavori sottopagati e dequalificati.

La tecnologia digitale consente grandi recuperi di efficienza nei settori produttivi tradizionali e questo non è necessariamente un male dal punto di vista del lavoro se il recupero di produttività permette di ampliare il perimetro dei servizi, come ad esempio potrebbe essere nei servizi pubblici, a partire dalla sanità, oggi schiacciati dalla insufficienza di risorse.

Ma la tecnologia digitale è anche alla base di una nuova economia, la cosiddetta economia della conoscenza, il cui primo asset sono l’informazione ed i dati. L’economia della conoscenza ha grandissime opportunità di sviluppo e lavoro bloccate dall’attuale regime di proprietà sui suoi asset fondamentali[4].

Una via possibile per creare nuove occasioni di lavoro è fare leva sull’enorme potenziale di un approccio “aperto” alla economia della conoscenza.  Approccio possibile con un diverso regime di proprietà e diritti sulle principali risorse del digitale: la conoscenza, l'informazione e soprattutto i dati, capace di salvaguardare lo sforzo e l'impegno delle persone e nel contempo impedire concentrazioni monopoliste basate sulla appropriazione di dati, delle informazioni e conoscenze prodotte socialmente[5].

Un diverso regime di proprietà della conoscenza dovrebbe anche essere sostenuto da un importante sforzo per produrre nuova conoscenza attraverso un grande investimento pubblico in ricerca a livello europeo di dimensione paragonabili all’impegno di US e di Cina. Il Cern dell’AI dovrebbe essere una parte fondamentale di questo impegno

La storia dello sviluppo della tecnologia digitale mostra che le innovazioni di maggiore impatto sono avvenute in regime di conoscenza aperta e non proprietaria: Internet, il Web, Wikipedia (che tra l'altro è tra le principali fonti di conoscenza con cui si alimenta l'IA generativa)[6].

Orientare il digitale verso il bene comune

Un grande impegno nella ricerca di base dovrebbe essere affiancato da un altrettanto importante impegno a carico dei governi a tutti i livelli territoriali, per cogliere le opportunità innovative delle tecnologie digitali negli ambiti applicativi quali la salute, la scuola e la formazione, l’ambiente.

Sono ambiti in cui le tecnologie digitali possono essere una opportunità per affrontare le crescenti difficoltà ad assicurare universalità, equità, e natura pubblica dei servizi pubblici forniti. In mancanza di tale impegno le tecnologie digitali diventeranno inevitabilmente strumenti per accelerare il disimpegno pubblico e la privatizzazione dei servizi[7].

Non lasciare indietro nessuno

Anche uno scenario virtuoso di sviluppo ed uso degli strumenti digitale orientato al bene comune richiede una attenzione particolare ai rischi di marginalizzazione digitale. Marginalizzazione digitale significa impoverimento funzionale cioè difficoltà ad accedere ai servizi di base essenziali per la vita quotidiana ed impossibilità di un pieno esercizio dei propri diritti politici, sociali ed economici. Ma non è scritto da nessuna parte che marginalizzazione ed esclusione siano il risultato inevitabile della tecnologia digitale. La tecnologia digitale può anche essere pensata e realizzata come opportunità di sviluppo del lavoro e per l’emancipazione sociale e culturale di tutti. Su questo un contributo importante può essere fornito dal terzo settore[8], in collaborazione con l’università già orientata a questo ruolo con la terza missione[9].

 Un uso virtuoso del digitale per il futuro

Puntare alla conoscenza aperta attraverso un deciso ripensamento dei meccanismi che ne regolano i diritti di proprietà e ampliare le possibilità d’uso del patrimonio informativo di cui disponiamo (per primi i dati). Attivare un impegno straordinario nell’ambito dei servizi pubblici facendo leva sul pieno dispiegamento delle potenzialità fornite dallo sviluppo digitale.  Valorizzare l’impegno collettivo per assicurare inclusione ed evitare esclusione e marginalizzazione digitale delle componenti più deboli della collettività. Possono essere un complesso di azioni combinate capaci di: valorizzare il patrimonio di competenze umane di cui l’Europa dispone ampiamente; creare uno spazio per nuove iniziative imprenditoriali, anche nell’ambito del terzo settore, con al centro il lavoro creativo; ridare ai valori di solidarietà e cooperazione un ruolo centrale nelle scelte delle persone.

Queste proposte possono non essere risolutive dei problemi che oggi abbiamo di fronte; rimangono altri grandi problemi aperti al di fuori del perimetro di queste note ma che con essa si intrecciano, penso in particolare alla regolamentazione dei mercati finanziari ed al ruolo delle politiche fiscali. Ritengo in ogni caso valga la pena esercitarsi su questi temi e che la discussione ed il confronto sul ruolo che vogliamo dare alla tecnologia nelle scelte politiche possa comunque aiutare a fare qualche passo avanti nella direzione di una società più giusta che tutti auspichiamo.

 

PB

06/02/2025



[1] A guidare la classifica Apple, con una capitalizzazione di mercato di oltre 3.812 miliardi di dollari, seguita da NVIDIA 3.367 miliardi e Microsof con 3.158 miliardi. Solo cinque Stati nel modo (US, Cina, Germania, Giappone, India) hanno un pil superiore alla capitalizzazione di Apple.

[2] Nel mondo 5,44 miliardi di persone usano telefoni cellulari, pari al 68% della popolazione mondiale.

Ci sono 5,16 miliardi utenti di Internet, il 64,4% della popolazione mondiale, e 4,76 miliardi utenti di social media, pari a poco meno del 60% della popolazione mondiale. (https://wearesocial.com/it/blog/2023/01/digital-2023-i-dati-globali/#:~:text=Ci%20sono%205%2C16%20miliardi,quanto%20suggerito%20da%20questa%20cifra.)

[3] “Non sono più i baroni del petrolio o i banchieri seduti in cima alla piramide del potere economico, ma Tim Cook e Satya Nadella, Jeff Bezos e Mark Zuckerberg, Larry Page, Sergey Brin e Pony Ma. Il loro potere deriva dalla loro capacità di raccogliere e analizzare le informazioni digitali, di mantenerne il controllo esclusivo o di distribuirle se e quando fa loro comodo.” Thomas Ramge & Viktor Mayer-Schönberger: “Fuori i dati! Rompere i monopoli sulle informazioni per rilanciare il progresso”, Egea 2021

[4] “Dal punto di vista economico (i dati) costituiscono un «bene non rivale». Rispetto a qualsiasi altra importante risorsa economica, questa caratteristica li rende più adatti a essere un bene pubblico. «Dati per tutti» non significherà il fallimento semplicemente perché tutti faranno pascolare le loro mucche e tutta l’erba verrà mangiata. Come bene digitale pubblicamente accessibile, i dati non scompaiono se sempre più persone li usano. Questo perché i dati si trasformano in valore solo quando vengono usati. E il loro valore aumenta a ogni uso aggiuntivo. È semplicemente assurdo lasciare che poche società ricche di dati limitino il valore e le intuizioni che la società può ottenere da essi. Non dobbiamo nemmeno espropriare le imprese, dato che in senso strettamente legale i dati non possono essere «posseduti».  … I monopoli di dati sono un furto di progresso. L’uso dei dati è un servizio al bene comune.” Thomas Ramge & Viktor Mayer-Schönberger: “Fuori i dati! Rompere i monopoli sulle informazioni per rilanciare il progresso”, Egea 2021

[5] Per un approfondimento sul tema della conoscenza aperta riferita anche al digitale si veda: “La privatizzazione della conoscenza” di Massimo Florio, Laterza 2021.

[6] Le stesse grandi piattaforme private fanno proprio il paradigma open quando non godono di una posizione dominante e non riescono con forze proprie sostenere il confronto competitivo. Ad esempio a suo tempo Google con Android, più recentemente Meta con Llama, OpenAi  finché non ha assunto un ruolo di leader, oggi l’ultimo arrivato DeepSeek. In tutti questi  casi però le licenze sul codice non sono mai piene e nel caso dell’AI non si rigurdano mai i dati di apprendimento.

[7]  La salute è un esempio paradigmatico: la territorializzazione del SSN prevista dal DM 77 e resa fattibile dall’impiego sistematico delle tecnologie digitale non sta decollando, malgrado gli investimenti previsti dal PNRR,  ed in sua assenza si incancreniscono le difficoltà del SSN, aumenta la spesa a carico dei cittadini, si moltiplicano le proposte di servizi forniti da privati largamente basati sull’impiego delle tecnologie digitali, in concorrenza con il servizio pubblico. 

[8] https://it.wikipedia.org/wiki/Terzo_settore

[9] https://it.wikipedia.org/wiki/Terza_missione

Talking about Montesquieu  (Gianni Garbarini)

Talking about Montesquieu

 

  

Se la dottrina di Montesquieu sulla separazione dei tre poteri debba essere aggiornata con l’aggiunta, sebbene solo simbolico-metaforica e non istituzionale, di un quarto (la stampa), un quinto (la televisione) ed un sesto (internet e i social media) può essere tema di discussione del Forum Democrazia Etica e Digitale.

Quello che certamente deve essere osservato è che, rimanendo nel campo della democrazia degli USA, i primi tre miliardari (in dollari) del mondo per patrimonio netto[1] Elon Musk (447 Mld $), Jeff Bezos (249 Mld $) e Mark Zuckerberg (224 Mld $) appartengano tutti al campo della tecnologia e fossero ospiti alla cerimonia di insediamento di Donald Trump ed uno di essi, il più ricco, sia stato messo a capo del nuovo DOGE, il dipartimento per l’efficienza governativa.

Per avere una idea dell’ordine grandezza di quelle ricchezze, la somma del patrimonio dei tre cavalieri della tecnologia è pari a 920 miliardi di dollari, un po’ più del PIL della Svizzera (885 Mld $) e un po’ meno dell’Arabia Saudita (1068 Mld $), bontà loro.

Si tratta di un salto di qualità nell’intervento di interessi oligopolistici di un settore dell’economia nel controllo diretto del governo degli USA. Se in passato i grandi gruppi si limitavano ad azioni lobbistiche, esplicito e legale finanziamento delle campagne elettorali, pressioni esercitate attraverso amicizie personali e contratti diretti con settori dello Stato - pensiamo ad esempio ai casi dell’industria petrolifera o militare o delle telecomunicazioni - con l’avvento dell’oligopolio tecnologico digitale siamo entrati in una nuova fase che prevede l’accesso diretto al potere governativo, con buona pace di Montesquieu e alla sua separazione dei poteri. Non credo che l’eccezione rappresentata della produzione delle arachidi con la presidenza Carter sia da considerarsi significativa.

Forse qui non si tratta di demonizzare la tecnologia in sé, ma constatare come il relativamente recente sviluppo del digitale, accompagnato dalla formazione di un oligopolio di straordinaria ricchezza e concentrazione (non ci sono soltanto i magnifici tre, otto delle prime nove persone più ricche del pianeta appartengono al settore della tecnologia e stanno tutte negli USA), sicuramente favorita da una lunga fase di sfrenato liberismo, globalizzazione del capitale, il tutto sospinto da una antica ideologia da pionieri, hanno cambiato la regolazione del rapporto tra tecnica, capitalismo e politica.

 

14 febbraio 2025

Gianni Garbarini



[1] https://lab24.ilsole24ore.com/i-piu-ricchi-di-sempre/